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La malattia degli otto giorni, St. Kilda

La malattia degli otto giorni

Esistono luoghi lontani da tutto: dalla civiltà, dai suoni familiari che siamo abituati a udire ogni giorno e a cui non vi facciamo più caso e persino, se vogliamo vederla in modo poetico e anche un po’ scontato, lontani nel tempo.
Per esempio c’è un’isola tra questi luoghi lontani che, per raggiungerla, occorreva un tempo armarsi di coraggio e di una buona dose di preghiere come scorta necessaria per approdarvi sani e salvi. Non è un’isola dispersa nell’Oceano Pacifico o nel profondo sud del Cile, bensì trova la sua collocazione nell’estremo nord della Scozia,  al largo delle Ebridi esterne. 
St. Kilda, o come la chiamano gli scozzesi di lingua gaelica, Hiort o Hirta, si trova a 160 km dalla terraferma e a 62 km dall’isola a questa più vicina. Ad oggi, è possibile raggiungere questa landa desolata solamente quando il vento è favorevole e Poseidone permette alle navi di solcare le acque di quei mari tempestosi senza abbattere su di esse la propria furia.

Secondo la tradizione irlandese, da quelle parti è nascosta – sì, nascosta – l’isola di Tir na Nogh, ovvero l’isola della giovinezza che apparirebbe ai marinai che si avventurano per quelle acque. Una specie di terra di mezzo, il congiungimento di questo mondo con l’aldilà. 

Ma questa è un’altra storia.
L’isola di cui parliamo è St. Kilda, patrimonio mondiale Unesco, una terra ricca di vegetazione e fauna che riescono qui a sopravvivere grazie ad una condizione fondamentale: non vi sono esseri umani, non più. L’isola è stata evacuata nel 1930 e il motivo è legato a un mistero. 

Un mistero che ad oggi nessuno è ancora riuscito a risolvere.
Forse, nessuno sarà mai in grado di spiegare che cosa accadde davvero tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900. 
Per capire qualcosa, è necessario fare un rapido sunto di ciò che era l’isola allora. A St. Kilda, approdarono e vi si stabilirono molti coloni di ritorno dall’Australia, per lo più galeotti e gente non propriamente ben vista che qui trovò rifugio, lontano dalla legge e dal proprio passato.

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L’unico centro urbano, oggi città fantasma, si chiama Village Bay, un curioso miscuglio di edifici molto diversi tra loro: case in pietra molto simili a Trulli, solo più piccole e rozze, alcune sporadiche costruzioni più moderne di fine 800, una chiesa, una scuola e un cimitero. 
Ecco, potremmo dire che la storia di questo mistero inizia proprio dove tutto finisce, ovvero nel piccolo camposanto vicino la chiesa. Qui è possibile passeggiare tra lapidi ormai abbandonate da quasi cent’anni e vedere come alcune date di nascita e di morte ci raccontino che chi veniva al mondo a St. Kilda, moriva dopo otto giorni. Ecco quindi spiegate tutte le piccole lastre di pietra che spuntano dalla terra, ormai ricoperte dalla vegetazione e ormai dimenticate.

Ma cosa accadde in quegli anni sull’isola?

Fu chiamata “la malattia degli otto giorni”, uno strano e inquietante fenomeno che, negli ultimi anni di storia umana sull’isola, portò le donne in termine di gravidanza a sfidare le acque irrequiete del nord pur di poter partorire sulle vicine isole Ebridi, piuttosto che mettere al mondo il bambino nell’isola dove tutti i nascituri morivano.

Secondo le testimonianze dei medici, i bambini che venivano alla luce godevano di perfetta salute fino al terzo giorno, poi, accadeva qualcosa di strano: tra la terza e la quarta notte, i bambini smettevano di cercare il seno e rifiutavano il nutrimento. Questo proseguiva sino alla settima notte, quando il palato dei bambini si irrigidiva e la gola si chiudeva senza lasciare che più nulla scendesse nello stomaco, nemmeno la saliva che iniziava a scorrere sul mento e le guance. La gola ovviamente si seccava, ma i bambini non si lamentavano, non urlavano più. I loro muscoli si irrigidivano e la mandibola non si serrava più rimanendo indurita in un’espressione grottesca.
L’ottavo giorno, quasi tutti i bambini colpiti da questa condizione morivano.  Certo, i più deboli, non arrivavano nemmeno al sesto giorno, mentre quelli di costituzione più forte, riuscivano ad arrivare anche a dieci giorni, ma erano pochi, molto pochi. 

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Negli anni furono avanzate diverse ipotesi per spiegare il mistero. Si parlò dell’alimentazione delle madri che probabilmente assumevano cibi che contaminavano il latte materno, come le uova dallo strano sapore “erbaceo” e la carne all’olio locale, fatto non certamente con olive del Mediterraneo, ma con olio gastrico dei fulmari, ovvero gli uccelli locali, una delicatessen degna di ben più ampia stesura.
A quanto pare, lo stile di vita dei locali, non era affatto da portare come esempio in trasmissioni televisive come Mela Verde e altre amenità;  il problema degli isolani non era solo strettamente legato alla loro particolare versione di macrobiotica, ma anche a certe loro usanze, come il bruciare la torba nelle stanze per riscaldarle e l’uso di oli combustibili dall’odore devastante. Tutti metodi che un oncologo moderno vi consiglierà caldamente. 

Ma a parte le supposizioni, dopo quasi cento anni, il mistero non è ancora stato risolto. Esiste una sola verità: quando nel 1930 l’isola venne evacuata, le donne poterono finalmente partorire bambini in ottima salute, che poi con comodo, iniziarono a morire come tutti gli altri bambini nati sani del continente, di Colera, Tubercolosi e … influenza.

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